Francesco Pungitore
Francesco Pungitore

Da Pitagora a Platone

Anima, armonia e creazione cosmica

di Francesco Pungitore (relazione al convegno: Filosofia, Musica e Antroposofia) 

 

 

    Innanzitutto desidero esporre brevemente i contenuti delle mie attività. Ho una laurea in Filosofia, un perfezionamento post laurea in Tecnologie per l'insegnamento e di mestiere faccio il giornalista professionista. Dunque, quasi in maniera consequenziale, ho raccordato queste mie passioni, avviando, già da diversi anni, un progetto di divulgazione del pensiero filosofico, al fine di renderlo accessibile ai più senza, però, banalizzarne i concetti chiave. In questo alveo di interessi, ho anche elaborato dei prodotti multimediali destinati alla didattica per Licei: in particolare, ho prodotto una breve storia della Filosofia in 25 puntate, in formato audiovisivo, che, devo dire anche con una certa soddisfazione, ha conquistato migliaia di fruitori sul web. Ho scritto anche dei saggi, sempre a carattere divulgativo, su argomenti di storia e di filosofia, avviando delle ricerche specifiche, viaggiando in Italia e in Europa, nel campo dell'analisi esistenziale, della filosofia delle religioni e dei nuovi movimenti spirituali. E' così che sono entrato in contatto, in Germania, con la cosiddetta consulenza filosofica di Gerd Achenbach, alla quale mi rifaccio in quanto tentativo concreto di riportare la filosofia tra la gente, verso pensieri “altri” che non siano i problemi astratti, puramente speculativi, di cui i filosofi di oggi si occupano nella loro veste accademica. La condizione in cui la filosofia si trova attualmente è ben nota: una sorta di autoghettizzazione, che le ha fatto perdere il contatto vitale con la realtà. Il pregiudizio che la soffoca è sempre quello: che la filosofia sia una cosa superflua, comunque riservata a pochi e non per tutti. Evidentemente non è così. Non lo era già per la filosofia delle origini, quella di Talete, Anassimandro, Anassimene, Eraclito, Pitagora, Parmenide, Empedocle, Platone. Ebbene, a quella filosofia, a mio avviso, bisogna ritornare. Alla filosofia “scienza prima” delle sue origini greche. 

  • Una filosofia comprensibile
  • Una filosofia che vivifica il pensiero, rimettendolo in movimento
  • Una filosofia che guarda alla vita e all'esperienza quotidiana degli uomini, abbandonando l'aria sterilizzata dei laboratori universitari

    Ed è proprio quello che stiamo cercando di fare qui a Soverato, grazie all'impegno organizzativo dell'amico Giovanni Sgrò, con il progetto “Naturium”, giunto al quarto appuntamento culturale dell'anno. Parliamo di filosofia antica, dunque. Di quella conoscenza nata come arte della vita indissociabile dall'esperienza. Di quell'impegno quotidiano, di quel cammino interiore ed esteriore, illuminato da un sapere che era anche e soprattutto terapeutico, dotato di una funzione liberatrice e risanatrice. Quindi parliamo di una filosofia capace di ispirare piuttosto che di spiegare, che eleva lo spirito umano in ambiti e sfere di superiori visioni senza mai perdere il suo radicamento conoscitivo. Una filosofia sapienziale, pertanto, che non è erudizione superficiale ma esperienza e pratica: della verità, della bellezza, del bene.
    Perseguiamo il nostro scopo, oggi, in un luogo che, già per se stesso, ci aiuta molto nel nostro compito. Questo luogo evoca ricordi di storia antica: a pochi metri da noi c'è un sepolcreto rupestre riconducibile ai Siculi, popolazione pre ellenica; qui di fronte, a pelo d'acqua, affiorano i reperti di età romana dell'antica Poliporto. Storia, dunque. Ma anche filosofia. Siamo ospiti del “Glauco” e, guarda caso, questa figura compare nientemeno che nella Repubblica di Platone, Libro X, come metafora dell'anima immortale. Il dio Glauco marino non è più visibile nelle sue forme originarie, sommerso dall'acqua, da pietre, conchiglie, alghe. E' come l'anima nelle forme che poi assume nel corpo.  
    Platone, come sapete, nei suoi scritti presenta l'anima secondo immagini e metafore allusive. Celebre è la metafora del carro alato, che compare nel Fedro. L'immagine qui proposta è quella del carro guidato da un auriga e tirato da due cavalli, uno bianco e uno nero. Leggiamo direttamente il passo del Fedro (Giovanni Reale III volume, pag. 194): “Si pensi, dunque, l'anima come simile a una forza composta di un carro a due cavalli e di un auriga. I cavalli e gli aurighi degli dei sono tutti buoni e derivati da buoni, invece quelli degli altri sono misti...” 
    Attraverso l'immagine del Fedro, dunque, cominciamo ad avere un'idea più precisa dell'anima secondo Platone. Più che di anima, dovremmo parlare, come abbiamo visto, di complesso animico. C'è una funzione superiore, l'auriga, che potremmo definire l'Io-spirito destinato a diventare il nostro sovrano interiore. E' ciò che gli Orfici simboleggiavano attraverso il mito di Dioniso, la scintilla divina destinata a riemergere dalla materia. “Da uomo diventerai dio perché dal divino derivi” recitano le laminette orfiche di Turi. Ci sono i due cavalli, uno docile e l'altro bizzoso. Definiamoli, per velocità di esposizione, come le due facce della stessa medaglia, ovvero: l'insieme psichico dell'uomo. Le sue funzioni razionali, da una parte,  ed emotive, dall'altra. E poi c'è il corpo fisico, il carro. 
    Per inciso, Steiner utilizza una simbologia molto simile nella descrizione delle parti fisiche e sovrafisiche dell'essere umano, sia pure con obiettivi meditativi diversi: l'Io, il corpo astrale, il corpo eterico, il corpo fisico sono le quattro parti costitutive dell'essere umano che, secondo l'antroposofia, si compenetrano formando l'entità umana complessiva.
    Ma torniamo all'anima secondo Platone. Un celebre passo del Menone ci spiega che “essa è immortale ed è più volte rinata”. “E poiché ha veduto tutte le cose – scrive Platone – non vi è nulla che non abbia imparato”. Dunque, Platone ci racconta che:

  • l'uomo è tripartito: è spirito, anima e corpo
  • l'uomo custodisce in sé una dimensione di immortalità
  • questo suo nucleo immortale cade e ricade più volte nei cicli della vita
  • infine, il suo conoscere, l'apprendere, è un ricordare, è reminiscenza

Perché è reminiscenza? Perché nell'uomo è attiva una capacità di visione che va solo ridestata. Nel suo volare e ricadere tra le dimensioni della materia e del sovrasensibile, egli vede quelle verità, quelle forme-idee, che danno l'impronta al mondo manifesto. Tutto ciò che esiste è copia di quel sovramondo che noi vediamo quando il nostro Io superiore ha la forza di raggiungere quelle alte vette spirituali. 
    E ce ne vuole di forza per elevarsi. Perché, come Platone spiega nel Fedone, l'uomo si appesantisce nella sua intima unione con il corpo. Si appesantisce ancora di più se si incarna in un individuo che preferisce un basso tenore morale alla via del sapere e della conoscenza filosofica. Quindi, per usare una terminologia orientale, c'è evidentemente un karma che ci lega al mondo della materia, un rapporto di causa-effetto tra le nostre azioni e la nostra capacità di “visione” dei mondi superiori. Karma che va sciolto scegliendo di orientare la propria vita in senso superiore piuttosto che no. Nel celebre mito di Er, con cui si chiude la Repubblica, Platone narra il ritorno delle anime su questa terra. I paradigmi delle vite stanno in grembo alle Moire. Ma essi non sono imposti, bensì solo proposti alle anime. La scelta è interamente consegnata alla libertà delle anime stesse. (Reale, Libro III, pagina 230).
    Dunque, riassumendo: l'uomo, come sappiamo dal Fedro, è come un carro alato tirato da due cavalli con l'auriga. Procedendo nel mondo sovrasensibile, riesce a vedere l'Essere o, almeno, una parte di esso. Se l'attrazione per la materia si fa più forte dell'aspirazione spirituale al divino, le ali si spezzano e precipita sulla terra. La vita terrena alla quale si dà origine sarà più perfetta in base a quanto si è visto di quell'Essere, di quella “pianura della Verità” di cui ci è concesso, comunque, partecipare. Ma quella visione, può essere recuperata anche qui, su questa terra? La risposta è sì, la si può recuperare attraverso ciò che Platone chiama nel Fedone la “seconda navigazione”. Una visione che oltrepassa i sensi e le sensazioni e ci consente di vedere le realtà puramente intelligibili dell'Essere. Abbiamo a che fare, qui, con le Idee, forme e oggetti reali, non semplici rappresentazioni mentali. L'uomo può attivare una capacità di visione più sottile di quella normale, per vedere le forme immutabili dell'Essere. Queste sono le Idee che, peraltro, Platone connette strettamente ai numeri, attraverso una gerarchia di rapporti che colloca ciascuna Idea in una precisa posizione-spazio nel mondo intelligibile. Questa dottrina di rapporti, proporzioni matematiche, numeri, è desunta da Platone direttamente dai pitagorici. 
    Sappiamo che Platone nacque ad Atene nel 427 a. C. Diogene Laerzio ci informa che viaggiò molto e andò in Italia dai pitagorici. Per motivi anagrafici, ovviamente, non incontrò Pitagora, ma attinse dagli epigoni della sua scuola alcuni punti focali di quella dottrina. Pitagora, nativo di Samo, raggiunse l'apogeo della sua vita intorno al 531 a. C. proprio di fronte a questo mare, tra Crotone, Locri, Taranto e Metaponto. A Crotone fondò la sua scuola di cui resta un ricordo quasi leggendario. Già Aristotele non sa nulla di Pitagora e tratta globalmente la sua scuola con la formula che usa nella Metafisica: “I cosiddetti pitagorici”. Nel Diels-Kranz, in alcuni frammenti riconducibili a Isocrate, si ricorda “Pitagora di Samo, andato in Egitto e fattosi discepolo degli Egizi, che superò tanto gli altri per fama che tutti i giovani aspiravano a essere suoi scolari”. E cosa sappiamo dei pitagorici? Veneravano Apollo, credevano della metempsicosi, la loro scuola era organizzata come una sorta di confraternita con precise regole di convivenza e tutti gli adepti partecipavano alla ricerca scientifica e filosofica come “bene comune”. Si applicavano alle matematiche, traducendo tutta la realtà in rapporti numerici, come cosmos, armonia. Ma, soprattutto, coltivavano la musica sopra ogni cosa, sia quale mezzo di purificazione dell'anima umana che studiandola nelle sue determinazioni numeriche.
    Dunque, nell'ambito della filosofia pitagorica, alla musica veniva riservato un ruolo speciale. Una attenzione che, come vedremo, Platone riprese ed ereditò. Musica, ovvero “mousiké”: per i Greci tutte le attività soggette alla protezione delle Muse. Ma per i pitagorici, prima, e per Platone, poi, la musica era essenzialmente la scienza della combinazione dei suoni. Quindi, non era tekne, ma episteme. Una vera scienza che li condusse a scoprire, ad esempio, gli intervalli musicali fondamentali di quarta, di quinta e di ottava. Giamblico ce ne parla nella “Vita Pitagorica” e ci sono tante testimonianza in base alle quali i pitagorici avevano allestito dei veri e propri laboratori in cui conducevano le loro ricerche acustiche, servendosi degli strumenti più vari. Ma perché tanto interesse per la musica?
    Le ricerche musicali dei pitagorici erano indissolubilmente connesse agli interessi matematici della scuola. L'indagine tesa a scoprire la realtà nella sua sostanzialità, il continuo tentativo di connessione tra scienza musicale e matematica, l'insistere su determinate combinazioni di suoni, ci può fare ipotizzare che esistesse, per loro, una stretta coincidenza tra realtà, numero e musica. La matematicità del reale è anche la musicalità del reale? Proviamo a seguire questa ipotesi.
    Ebbene, sappiamo che l'espressione geometrica fondamentale dei pitagorici era la tetractys. Cos'è questa figura a piramide? L'espressione numerica degli intervalli consonanti fondamentali: ottava, quinta, quarta e doppia ottava. Per questo essa era chiamata “armonia”. Armonia come il cosmo intero, dunque. Porfirio ci dice che Pitagora udiva l'armonia dell'universo, cioè percepiva l'universale armonia delle sfere e degli astri. Cosmo e armonia vengono a coincidere nel pitagorismo, quell'armonia celeste che si trova nella Repubblica di Platone e, soprattutto, nel Timeo. Parlando della costituzione del cosmo, Platone introduce nel Timeo un discorso musicale di notevole importanza. Quando passa a esporre il processo costitutivo dell'anima del mondo ad opera del Demiurgo, si serve di uno schema numerico ben preciso: 1, 2, 4, 8 – 1, 3, 9 27. La figura in questione, sostituendo punti e numeri, non è altro che la tetractys. L'atto della creazione cosmologica divina, anche per Platone, è musicale!  
    Ed eccoci, dunque, al punto. La legge della creazione è armonia ed essa vale sia a livello macrocosmico che microcosmico. Giamblico ci ricorda che Pitagora collocò al primo posto l'educazione basata sulla musica. Platone riconosceva alla musica il posto principale nell'educazione dei giovani. Perché? Perché evidentemente si cercava una via per dirigere l'anima dell'uomo verso un percorso di elevazione spirituale e di comunicazione col divino, verso la fonte della creazione.
    La catarsi, l'autodivinizzazione, le purificazioni, lo sforzo di elevarsi dalla terra e farsi il più possibile prossimi ai Celesti passava e passa, inequivocabilmente, mediante lo strumento unico, originario, liberatorio della musica. [Soverato - 15.06.2014]

 

 

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